mercoledì 16 marzo 2011

...fiori di ciliegio, il blu del cielo...

Chi mi conosce e mi legge ha osservato, a volte positivamente a volte come critica, che non scrivo dei fatti del momento. Non lo faccio per non cavalcare l'onda. Ma questi giorni è difficile restarne fuori, essere indifferente, scrivere nel taccuino e non su questo blog. Lo abbiamo visto spettacolarizzato nei film hollywoodiani, ma non si poteva immaginare. 
Mentre facevo colazione, portatile e tv aperto seguo notizie e tweet. La tv a il volume al minimo ma il filmato si spiega benissimo: una ripresa dall'alto, da un elicottero, mostra dell'acqua. Tanta acqua molto di più di quanto possa immaginare anche ora che l'ho vista. E' acqua di mare ed è arrivata su quella terra di una grande isola del far east, abitata da un grande popolo. Mi accorgo che mentre guardo quelle immagini la bocca è aperta, il fiato sospeso. Devo deglutire. Chiudo finalmente le labbra. Intanto inarrestabile scorre trascinando tutto ciò che incontra senza fermarsi: arriva tra le case, vedo delle auto trascinate come barche di carta, e intanto scorre, serre e campi vengono inondati ad una velocità che stimo in diverse decine di chilometri orari.
Cambia l'inquadratura. Una città. Il traffico è regolare. Persone per strada sembrano camminare. Guardando bene, camminano in modo ordinato, quasi in fila. Sorrido vedendo che nonostante il terremoto e lo tsunami in corso, del quale forse molti ancora ne ignorano la corsa assassina, tutti camminano ordinati: nessuno urla, nessuno corre, nessuno...tutti fanno quello in quel momento deve essere fatto come previsto dai protocolli in caso di terremoto: semplice no? Per noi no. Noi = occidentali. La difficoltà aumenta quando Noi = latini.
Passano i giorni e le notizie si susseguono senza lasciare speranza: è successo ed è pesante. Se penso a quanto si sta male se muore una persona, penso a chi ha perso tutto oltre la casa la famiglia. Le persone intervistate sono con una dignità, una forza d'animo impressionante. Mi capita di discutere proprio di questo aspetto del carattere tipico dei giapponesi, che spesso viene scambiato per freddezza, apatia e rassegnazione a tale catastrofe.
Ma non è così. Non è affatto così. Superficialità e Ignoranza generano giudizi senza possibilità di replica.
Ieri sera ero su FB e ho visto che era on line un mio amico. L'ho conosciuto da poco. Sto sempre ad ascoltarlo con attenzione quando lo incontro e lo leggo con affetto quando posta qualcosa su FB. 
E' di origini giapponesi.
Lo saluto e dopo pochi scambi in chat, mi lascia con queste righe...

...sento forte quell'immenso, 
silenzioso coraggio di non dimenticare mai che per la nostra gente, 
il semplice vivere è una sfida... 
il valore sta nel lottare... 
amiamo la nostra pur ostile natura... 
che in se offre lo splendore dei fiori di ciliegio, 
il blu del cielo i terremoti e gli uragani... 
questa la nostra natura... 
la accettiamo...
Seiichi Kanzaki

...fiori di cigliegio, il blu del cielo...

Ringrazio Seiichi di avermi autorizzato a pubblicare queste splendide parole che descrivono la dignità, la serenità e la forza di un popolo oggi sottoposto a dura prova.

domenica 6 marzo 2011

USA TODAY - 3 agosto 2010

Los Angeles - Ridgecrest 255 km  

Nonostante il viaggio, mi sveglio alle sette. Pensavo peggio dopo circa dodici ore di viaggio in tre stati, due continenti e quattro aeroporti. Ma sono fresco. Mi vesto in fretta e prendo la macchina fotografica. La catena dei Motel6 pur avendo stanze con due king size bed ti accompagna per ogni suo spazio, ascensore compreso, un persistente odore di giraffa. Non aggrottate le sopracciglia! Sono sicuro che lo avete sentito anche voi questo odore. L'odore di giraffa. E' quell'odore di moquette stanca, vissuta, calpestata chiusa per troppo tempo in una stanza pulita da una portoricana senza permesso di soggiorno. Unghie finte lunghissime con la bandiera americana di traverso: stelle e strisce con brillantini colorati blu, rossi e bianchi. L'odore di giraffa scompare all'apertura delle porte dell'ascensore una volta arrivato al piano terra, e si dimentica subito, perché arriva quello di caffè. Nei Motel6 la sala della colazione è un fai da te spicciolo: distributori di acqua calda per il the e per il caffè; due tipi di latte, frutta. Ma non ho fame. Tre grossi distributori automatici pensano a fornire le bibite più svariate rigorosamente gasate e zuccherate. Esco dalla hall per cercare qualcosa di interessante da fotografare. Un parcheggio. Auto tipicamente americane di grandi dimensioni. Arriva un furgone shuttle per l'aeroporto LAX. E' il 2 agosto e sono a Los Angeles.

La freeway in cemento rigato scorre sotto la mia Chrysler che si perde tra Hummer, Buick, Tunderbird enormi truks sferragliano imponenti. Timidamente cerco di farmi strada nel rispetto rigoroso dei limiti di velocità, delle distanze di sicurezza, nell'uso degli indicatori di velocità. Passa sopra di me il cartello che mi indica la corsia giusta per Santa Monica. Lasciata l'auto ad un parcheggio a pagamento, indosso il mio zaino, una felpa a maniche lunghe. Piano quasi con rispetto, attraverso l'ingresso del pear di Santa Monica nella quale termina la leggendaria Route 66. La spiaggia è lunghissima. Si misura in Baywatchers Houses ne conto sei da un lato del molo e 8 dall'altro. Se non fosse per questa nebbia. Ma che freddo fa? Sono a Los Angeles al Santa Monica Pear dove finisce la mitica Route 66 nell'estate più fredda della California dagli anni '30 del secolo scorso. Che culo...
molte persone affollano il pear...
Al Pear vengono in tanti. Due chiacchiere, due tiri di lenza, due giri in giostra, due sculture...una pennichella.
Uno starbuks. Voglio un caffè. Sembra facile. Mi imbambolo guardando verso il cielo tentando di leggere tutti i tipi di caffè che posso assaporare. In queste situazioni vorresti scegliere rapidamente il caffè migliore, il piatto migliore, il panino migliore. Puntualmente, pur entrando con le idee chiare: un caffè, magari lungo, americano e invece mi trovo come un idiota che fisso senza riuscire a leggere e capire. Per un secondo lo sguardo mi va sugli occhi a mandorla della cassiera che mi fissa mentre sulla fronte le passa la scritta whottafukingareuwaitingfor? È rossa e scorre veloce a ripetizione. I miei occhi con le lucette rosse ancora fissate sulla retina rivanno sul tabellone dei caffè, saranno oltre la ventina, quasi trenta. Le palpitazioni aumentano. La porta alle mie spalle si apre ed entrano nuovi avventori e finisco per prendere il primo che leggo: allo zenzero. Ma chi cazzo lo beve i caffè allo zenzero? Bacchettina di legno, coperchietto di plastica. Il guanto di amianto non è compreso nella fornitura.
Fuori ci sono dei tavolini in legno e mi godo i personaggi. Molte persone affollano il pear. Sono famiglie, coppie, giovani e anziani. Le razze sono varie. Lo Sturbacs dove mi trovo a farmi lessare la lingua con dello zenzero caldo, si trova all'ingresso del Luna Park. Di fronte a me dalla parte opposta del pear, un cinese attrae mia attenzione. Ha una tuta grigia abbondante per il suo fisico asciutto, con sopra un maglione verde anch'esso due tre taglie in più. Posa un tappetino, delle casse musicali, un secchiello king size di quelli per i pop-corn del cinema con su scritto con un pennarello nero THANK U.
Mi metto comodo.
Il cinese, si guarda un attimo intorno, più che altro un gesto nervoso da imbarazzo. Non credo che vedesse veramente ciò che guardasse: hai presente quando guardi l'ora in ascensore in compagnia di qualche estraneo? Mica vuoi sapere che ore sono. Vinci il tuo imbarazzo magari leggendo attentamente la targhetta del produttore, numeri di telefono, carico massimo eccetera. Lui si guardava intorno.
Saltella leggero sul posto e comincia a fare degli esercizi come per scaldarsi.
Mi giro verso di lui accavallando la gamba. E sorseggio lo zenzero nel caffè lungo americano caldo.
Con una mano prende il gomito piegato dell'altro braccio e lo tira dietro la schiena. Ripete il movimento in modo regolare e con movimenti sempre più lunghi, arrivando a piegamenti fuori dal normale coordinamento umano. Ripete l'esercizio con l'altro braccio.
Si sdraia a pancia in giù e comincia a fare dei piegamenti all'indietro: sollevando il busto senza sollevare addome e gambe. Aspetto un rumore come di legno che si spezza, con movimenti ripetuti e graduali sembra che arrivi fino a 90°. Inverosimile.
Dal secchiello di cartone è evidente che è il suo modo per sbarcare il lunario. Spero che sia il modo per arrotondare e non per mangiare. Da come è asciutto credo che oltre a tenersi in forma, abbia saltato qualche pasto. Pur essendo orientale con i capelli a caschetto corti e liscissimi, la sua pelle è olivastra. Sarà per il sole della California o per questo spettacolo che organizza qui per i turisti e i frequentatori del Pear o per le sue origini. Chissà dove ha imparato quegli esercizi, chi gli ha insegnato a raggiungere tale flessibilità, se i modi sono stati costruttivi piuttosto che costrittivi. Mentre rifletto amareggiato, lui va avanti senza sosta in un rituale con movimenti sicuri, come ripetuti quotidianamente più volte al giorno nelle piazze giuste, dove passa tanta gente con dei quarti di dollaro che avanzano sperando di riuscire a dare un'occasione per poterli spendere. Si veste. Tira fuori i suoi trucchi, si sbianca il viso, indossa dei pantaloni comodi neri pieni di luccichini che si vedono a fatica con 'sta nebbia. Camicia bianca, bretella, giacca come i pantaloni parrucca con i ricci lunghi da un lato, cappello sulle ventitré. I suoi movimenti nel vestirsi sono eleganti, scuri, precisi come se stesse già danzando. Ha finito. Manca poco. Da un astuccino che doveva essere argentato tira fuori una custodia in pelle. Con dentro dei Ray-Ban a goccia con lenti a specchio. Schiaccia un interruttore sul suo hi-fi portatile e dalle casse parte l'intro di Billy Jean. Il moon walking è impressionante, uno dei più fluidi ed eleganti che abbia mai visto. Avevo davanti a me un Michel Jackson perfetto compreso calzino bianco e mocassino. Il suo inglese è approssimativo, l'accento orientale è forte. Ha imparato le frasi che servono in un falsetto forzato per essere come MJ. Quello che serve per attirare le persone che vanno al Luna Park o a fare una passeggiata.
Il mio caffé aveva finalmente raggiunto una temperatura adeguata per delle labbra umane e ripresi a sorseggiarlo più a lungo. Il mio amico ormai era in preda ad evoluzioni straordinarie. Se ci fosse stato un po' di sole quella giacca avrebbe dato un effetto luccicoso che avrebbe sottolineato le sue movenze. Qualcuno si ferma. Qualcuno rallenta e passa sorridendo. Qualcuno batte il piedino a ritmo di Who's Bad. Qualcun altro pesca dal molo senza badare che un altro Micheal Jackson è arrivato al molo stamane.
Have a nice day man!
Pennichella...
Mi alzo dal tavolino, e proseguo verso l'estremità del molo. I suoni che mi circondano oltre quelli del Luna Park con le canzoncine tipiche e il ritmato passaggio delle montagne russe, poco più di un brucomela, è coperto dalla musica del nostro amico Michael che via via che cammino si attenua. Il suo posto viene preso da una bellissima canzone romantica che un uomo di colore canta dietro una tastiera collegata alle casse. Da un lato un espositore mostra i suoi CD. Suona e canta ammiccando a chi, come me lo osserva ascoltandolo, e dispensando sorrisi appena ne ha la possibilità. Un grande. La sua melodia mi accompagnerà per tutto il tempo che starò sul Pear.
Pescatori della domenica...
I pescatori della domenica sono diversi. Alcuni solitari. Altri hanno l'amico chiacchierone vicino che spero gli faccia compagnia, altri con valigette professionali e altri invece sono talmente scazzati che sembrano far fare il bagno alle esche.
Ma un gruppo di persone, mentre passeggio attraggono la mia attenzione. Li noto perché sono vestiti nello stesso stile che contraddistingue un personaggio tipico e nello stesso tempo mitologico degli Stati Uniti: sono dei Bykers. Originali e cattivissimi bykers del Nord America: Jeans, stivali neri, catenaccio al fianco, borchie, qualcuno fuma, gilet o giubbotti in pelle con coloratissime decorazioni sulla schiena riportanti teschi (elemento imprescindibile), polsini di pelle borchiati, immancabili and let me say...so cool tatoos. Altri aspetti che vedo caratterizzare i Bykers, sono i baffi, i pizzetti, le barbe e le basette importanti, vistose lunghe ormai bianche o brizzolate. Un altro elemento che li caratterizza per quello che osservo da questo campione di una dozzina di esemplari, l'addome. La birra e gli hamburger hanno lasciato segni indelebili sui loro corpi. In passato ho avuto occasione di ammirare altri dignitosissimi Byker italiani e non, che avevano le stesse principali caratteristiche per poter essere definiti Bykers distinguendosi magari per particolari accessori: il casco come elmetto tedesco, variopinte bandane, messaggi sui giubbotti o sui tatuaggi, addomi prorompenti e braccia muscolose, insomma finché se ne stanno buoni e sobri sono proprio belli da vedere. Ma mentre osservo questo raro e pregevole esempio di Bykers originale USA, non capisco cosa abbia attratto la mia attenzione di questo seppur variopinto gruppetto.
Proseguo la mia passeggiata perditempo e ogni tanto riguardo la combriccola. È inutile li noto dando uno sguardo di insieme al Pear, non si possono non notare. A volte le evidenze non si notano. Sono andato sui dettagli del loro abbigliamento, sugli accessori, senza notare qualcosa di più macroscopico che inconsciamente me li rende così visibili nell'insieme delle persone su quel molo: sono in gruppo. Direte: “sono bykers, stanno tra loro fanno un gruppetto, capirai. Anche i paninari lo facevano...” .
È vero, sono in gruppo. Ma non è un gruppo sparso, è un gruppo abbastanza ordinato, non allineato e coperto, ma non sparso. Sono lì in uno spazio definito e stanno soprattutto, fumando delle sigarette!! Il motivo per cui mi saltano agli occhi in una osservazione più generalizzata del molo è perché:
  1. sono in questa formazione pressoché ordinata e stanno fumando;
  2. Sono gli unici che stanno fumando;
  3. possono fumare perché sono in una area delimitata da delle strisce in terra che riportano la scritta SMOKING AREA.
Solo ora capisco la formazione: essendo una dozzina circa devono stare tutti dentro l'area prevista per consumare il vizio.
Che immagine impietosa, dei Bykers tipicamente outl-aw, rinchiusi in un parcheggio per fumatori e loro allineati e coperti, umiliati obbediscono. Magari sono architetti e banchieri e lunedì prossimo saranno in giacca, cravatta e valigetta e magari jeans, borchie e bandana per loro è già libertà.
Dopo aver mangiato giapponese nella Tirty Street, mi accendo un mezzo toscano per rientrare al parcheggio. Noto nella folla un uomo sulla sessantina con paglietta a larghe falde, camicia a maniche corte gialla. Cammina nel senso opposto al mio e ho visto che mi ha notato. Passeggio tranquillo guardando negozi e passanti senza badare troppo al tizio. Ma me lo trovo davanti che serio mi invita a non fumare lungo la tirty street, mi spiega che se dovesse vedermi un poliziotto, pagherei una multa salata.
Rassegnato, spegno immediatamente il mio toscano sulla suola, ringrazio e raggiungo l'auto.
Una delle tappe fondamentali era un market nel quale avrei voluto acquistare della frutta. Sto seguendo da poco una dieta e in questo momento è importante non perdere le buone abitudini acquisite finora e continuare a perdere i chili come ho fatto fin'ora. Non l'avrei immaginato, ma ha inizio una epopea che avrà fine solo tra cinque giorni. Tutto nel paese che ha inventato i Mall (i centri commerciali) che Dio lo perdoni. Una volta in auto prendo dallo zaino il mio programma di viaggio e dopo una veloce scorsa, imposto il satellitare. Ridgecrest è la prossima tappa. Chiedo al satellitare di trovare un centro commerciale lungo il tragitto. Devo dire che si fa in fretta a dire centro commerciale. Dopo il terzo agglomerato di fast food, massaggi, studioli legali, ottici, cazzatine varie ma niente che possa assomigliare ad un alimentari, che so, un esselunga, recitando un mavaffanculo, riaccendo il motore della mia crysler e mi rimetto in viaggio: sta Ridgecrest non è mica dietro l'angolo!
Lasciare Los Angeles, non è così semplice alle cinque del pomeriggio. Nonostante stia viaggiando su una freeway a sei corsie, il traffico ha un'andatura a fisarmonica. Accendo il mio toscano, apro appena il finestrino e tutto sembra essere diverso. Man mano che mi allontano dalla metropoli, il traffico si dirada e diventa più facile viaggiare a velocità costante. Il paesaggio cambia passando dal collinare verde sino a diventare desertico con una vegetazione bassa che si arricchisce di toni caldi man mano che il sole tramonta, in un cielo sereno ancora azzurro che sfuma all'arancio. La lunga strada dritta allineata lungo i pali della luce, in alcuni tratti è ricca di dolci dossi che mi offrono l'unica variante del mio viaggio. Il mio mezzo garibaldi finisce mentre orma al buio, entro nella cittadina con le strade che si intersecano come una scacchiera.
Il satellitare non è precisissimo e mi fa perdere l'ingresso per il mio secondo Motel che ha un nome tutto particolare, ma adatto alla qualità che offre: il Vagabond Inn. Uno dietro l'altro separati da parcheggi trovo nell'ordine: Mc Donald's, KFC, Pizza Hut e qualche altro fast food. Sono ormai le dieci e mezza e sono preoccupato che data la vita notturna di Ridgecrest (cimitero a Nuragugugme in Sardegna) praticamente la mia auto è la sola in circolazione. Giro a destra ad un incrocio per fare una inversione a U sperando che nessun poliziotto o sceriffo della zona mi veda e che non succeda come nei film, telelefilm o in RealTV. Al momento non avrei la forza di sostenere un inseguimento da film. Ripercorrendo la via principale di Ridgecrest, ripercorro in ordine inverso i fast food store e finalmente vedo le insegne del Vagabond Inn!! Non azzardo un'altra inversione e nella via principale poi. Entro nell'incrocio successivo e ritorno sulla strada principale nel senso opposto ed entro nell'ingresso del motel.
Pochi gradini mi consentono di raggiungere la hall dove trovo il desk vuoto. Sulla destra, un campanello di metallo lucido si fa notare. Ho sempre sognato di suonarne uno. Solo dopo essermi guardato intorno ed essermi convinto che non fosse nessuno, realizzo il mio sogno: con il palmo della mano destra aperta e tesa dò un colpo secco al ring che risuona feroce emettendo una vibrazione forte, secca a prolungata. Dalla porta nella parete opposta all'ingresso arriva un sorridente recepionist: non è tanto alto, ha i capelli radi, polo a manica lunga, Tshirt e jeans, la carnagione è olivastra.
« Welcome sir, have you any reservation? »
Dalla mia cartellina estraggo la stampa della email di conferma e presento il passaporto. Sono un po' stanco e ho un certo appetito. A sentire il sorridente recepionst, i fast food sulla strada principale, sono l'unica possibilità del posto a quest'ora. Ottenuta la chiave decido di andare a mangiare prima che chiudano. KFC è il più vicino e posso mangiare del pollo. La sensazione è la stessa: ho troppa scelta, un guy che vuole andare a casa e che deve ancora pulire tutto. Decido per il piatto più sano della casa: un pollo grigliato.
« I'm sorry sir we don't have Coca Zero »
Alla domanda successiva, sospira e senza rispondere mi indica un frigo con delle bottigliette d'acqua.
Dopo un minuto, ho il mio vassoio con grilled chiken e patatoes e mi volto lasciando mi alle spalle il guy in evidente sovrappeso che mi guarda come dire: stupidomangiaspaghettinonsaicosatiperdi. Il locale è piccolo. Una rapida occhiata d'insieme mi da il quadro della situazione. Ci sono tre tavolini: uno è pienamente occupato da una mamma e due figlioletti in piena crescita; uno ha già le sedie su e l'altro è il mio. La famigliola è davanti a me e la mamma mi da le spalle: è enorme, occupa due posti e non mi fa vedere i figli. Effetto sipario.
Dalla ferocia con la quale ho ridotto quel pollo ad un cumulo di ossicini lindi e puliti, mi sono reso conto che avevo veramente fame. Mi dirigo verso l'auto e rientro al Vagabond.
Chissà se c'è anche un Farabut Inn.
Arrisuono il campanellino al desk. Con l'occhio meno brillante al contrario del suo infaticabile e devo dire gradito sorriso, spunta il mio amico indiano (d'india) al quale chiedo delle indicazioni per un market dove poter acquistare: acqua, ghiaccio ma soprattutto frutta e pomodori.
Non sembra difficile, verso l'ingresso del paese, proprio da dove sono arrivato, c'è un centro commerciale dove posso trovare tutto il necessario e a quanto pare apre presto.
« Good! Thank you man! Have a good night! »
« you welcome sir...good night »
Portare il valigione, zaino sino al primo piano attraverso una scala a chiocciola, è stata la giusta ginnastica prima di andare a dormire.
Ultimo rito della mia religione: mettere in carica ogni diavoleria elettronica come macchina fotografica, cinepresa, cellulare, Ipod. Purtroppo non ci sono abbastanza prese. Vorrà dire che ogni tanto aprirò un occhio per verificare il colore delle spie di caricamento: quelle passate al verde lasceranno il posto agli altri dispositivi.
Il potente letto del Vagabond mi fulmina portandomi immediatamente nella quarta dimensione, lasciandomi solo la possibilità sollevare leggermente gli angoli delle mie labbra: domani Death Valley.


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